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Ma la storia è davvero andata come ce la raccontano?

 

Cosa hanno in comune Orazio Coclite, Muzio Scevola e Clelia ?

Riassumendo la risposta in una parola sola potremmo dire: Porsenna. Porsenna, o meglio Lars Porsenna, in cui Lars è il prenome derivato dall’etrusco Larth, fu un re etrusco di Chiusi, città – stato ubicata in Toscana, vissuto nel VI secolo a.C., probabilmente tra il 530 e il 480 a. C. La sua figura fu talmente importante da essere definito non come lucumone ( che per gli Etruschi rappresentava sia il capo politico che religioso di una comunità) della città di Chiusi, ma come “re degli Etruschi”, per sottolineare forse il suo ruolo di potere nella dodecadopoli, ossia la comunità costituita da dodici città, dell’Etruria settentrionale.

Secondo la tradizione letterale raccontata da Tacito, Porsenna nel 509 a. C. avrebbe riportato Roma sotto il dominio di un re divenendo di fatto l’ottavo ed ultimo re di Roma. Questo atto di forza fu motivato dall’aiuto militare mosso in supporto del re etrusco Tarquinio il superbo, estromesso dalla città romana che si era ribellata alla sua prepotente tirannia.

Tarquinio il Superbo, detronizzato, persuase Lars Porsenna, re di Chiusi, a rimetterlo sul trono con le armi. Ma il grande re etrusco che partì da Chiusi con un esercito composto da soldati provenienti da tutta la dodecadopoli, non rimise sul trono il tiranno Tarquinio, ma se stesso. Secondo alcuni autori Porsenna pose il campo sul Gianicolo e assediò la città. Nel raccontare l’assedio si narra anche della presa del ponte Sublicio, dal quale emerse una figura eroica decantata dagli storici romani, quella di Orazio Coclite, ossia HORATIUS·COCLES che in Latino significa " Orazio con un solo occhio".

La leggenda romana vuole che questo eroe impedì da solo il passaggio degli Etruschi sul ponte Sublicio, dando modo ai Romani di tagliarlo alle sue spalle (il ponte era di legno), per impedire che i nemici attraversassero il Tevere prendendo possesso della città.

Ci sono due storici che a tal proposito ci forniscono due storie diverse: secondo Polibio Orazio Coclite perì nel fiume, ma per Tito Livio invece si salvò ricevendo grandi onori per l’impresa.

Ovviamente è impensabile che un solo uomo, anche se molto forte e coraggioso potesse bloccare la potente ed agguerrita armata etrusca ed è quindi più ragionevole pensare che gli Etruschi abbiano preso il possesso della città senza troppi sforzi e che gli storiografi romani abbiano cercato di sminuire e mascherare il ricordo di una dominazione da parte dell’ottavo re, durata dal 509 sino

al 504 a. C., quando ad Ariccia morì il figlio di Porsenna Arunte nel corso della battaglia contro i Latini alleati con i greci di Cuma.

Comunque, il fatto che Porsenna divenne l’ottavo re di Roma è testimoniato anche dall’impresa di un altro valoroso soldato romano, Muzio Cordio, più famoso come Muzio Scevola, salito agli onori delle cronache per aver tentato di sopprimere Porsenna in quanto capo dell’esercito che aveva il comando di Roma. Muzio Cordio, giovane aristocratico romano di origine e lingua etrusca, si infiltrò nell’accampamento di Porsenna, attese che il suo bersaglio rimanesse solo e quindi lo pugnalò, ma sbagliò persona, uccidendo invece il suo scriba. Catturato e portato dai soldati dinanzi a Porsenna il giovane romano denunciò la vera intenzione di colpire il re, auto-punendosi: mise così la mano destra, quella che impugnava l’arma, in un braciere dove ardeva il fuoco dei sacrifici. Da quel giorno il coraggioso nobile romano avrebbe assunto il nome di "Muzio Scevola” ossia Muzio il mancino.

Riguardo alla figura di Clelia Tito Livio scrive che, durante l’occupazione romana del re di Chiusi, la ragazza fu consegnata insieme ad altri giovani a Porsenna per un patto di pace tra i Romani e gli Etruschi.

Dato il suo spirito ribelle Clelia cercò degli espedienti per scappare dagli Etruschi. Si ingegnò ed alla fine riuscì a trovare una via di fuga attraversando il fiume Tevere. Ma Porsenna, una volta venuto a sapere che era scappata pretese la sua restituzione. Fu così che i Romani riconsegnarono la ragazza, che il re etrusco non solo protesse, ma onorò, permettendole di scegliere gli altri ostaggi che avrebbero dovuto farle compagnia e che Clelia indicò in alcuni adolescenti come lei. Una volta conclusa la pace, i Romani immortalarono il gesto di estremo coraggio della ragazza con una statua equestre in cima alla Via Sacra, la strada più importante e più antica di Roma, così chiamata dopo che Romolo e Tito Tazio vi ebbero firmato la pace della guerra, causata dal ratto delle Sabine.Un’ultima nota prima di chiudere questa ricerca.

I libri di storia di solito non riportano l’informazione che Roma fu governata da otto re, come in effetti è stato con Porsenna ultimo re di Roma. Come pure non esiste nessuna menzione sul fatto che Lars Porsenna una volta lasciata la grande città per far ritorno a Chiusi (e questo avvenne dopo l’uccisione del figlio Arunte nel corso della battaglia di Ariccia nel 504) non restaura nessuna forma di monarchia o tirannia, ma consegna il potere nelle mani di due consoli romani, anticipando nel concreto quei principi che daranno vita alla futura repubblica romana e facendo diventare reale quella forma di democrazia che si vedrà in Grecia solo intorno al 450 a.C., più precisamente nell’Atene dell’epoca di Pericle.

Un tempio etrusco a Travalle?

 

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Nei pressi di Travalle,  in mezzo ad un bosco, è stata rinvenuta una vasca lustrale simile per tutto a quella trovata a Tarquinia presso il tempio denominato Ara della Regina, con ingresso ad Est.

Nelle vicinanze della vasca sono stati depositati alcuni massi imponenti che costituivano una parte delle pareti di un antico edificio.

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Nella foto la vasca lustrale presso il tempio etrusco dell’Ara della Regina
a Tarquinia

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PANE


PANE TOSCANO (o etrusco?)
di anonimo toscano


I progenitori della cucina Toscana furono sicuramente gli Etruschi ,da sempre dediti ai piaceri della tavola con l’accompagnamento musicale dell’aulos, della lira e di cembali di varia tipologia.
L’Etruria era una terra fertile e rigogliosa coltivata soprattutto a frutteti, legumi e cereali. Ancora oggi troviamo infatti tra i piatti più conosciuti della cucina toscana la minestra di farro. Questo piatto oltre ad essere molto buono e nutriente è anche molto facile da preparare. Altro prodotto caratteristico che non trova uguali o simili in Italia è il pane toscano, caratterizzato dalla mancanza di sale. Su questo alimento possiamo dire che le aree geografiche dove si produce un pane senza sale (Toscana Umbria e parte delle Marche) testimoniano ancora oggi il loro legame con la civiltà etrusca.
In epoca più recente, una ricerca storica indica che l’usanza di non aggiungere sale al pane in Toscana risale al XII secolo quando, al culmine della rivalità fra Pisa e Firenze, i pisani bloccarono il commercio del prezioso cloruro di sodio. Persino Dante ricorda quest’uso nella sua Commedia, nel XVII canto del Paradiso, versi 58-59, con la risposta di Cacciaguida e la profezia dell’esilio da Firenze del sommo poeta: “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui..”.  In Toscana, la sacralità del pane, ovvero l’importanza di non buttarlo via ma di utilizzarlo anche quando è raffermo, è testimoniata da una lunga serie di antiche ricette ancora molto diffuse: la panzanella, la panata, la ribollita, l’acquacotta, la pappa al pomodoro, la fettunta, la zuppa di pane, la minestra di cavolo nero.
In un periodo di crisi economica come quello attuale vale forse la pena di riscoprire questi piatti poveri.

…. E VINO


Quando si parla della storia ci sono dei codici di lettura che ci aiutano ad interpretare e meglio comprendere la realtà.
Uno di questi codici é sicuramente la civiltà del bere e del mangiare.
Per argomentare con un’analisi scientifica la nostra storia sotto questo particolare profilo alcuni archeologi dell’università di Siena hanno svolto un lavoro in collaborazione con biologi molecolari dell’Università di Milano.
Così gli archeologi hanno battuto a tappeto l’Etruria meridionale per individuare le  famose “lambruscaie”, vale a dire viti selvatiche che si inerpicano sugli alberi. I biologi molecolari hanno dimostrato che le viti trovate nei pressi di siti archeologici hanno sviluppato negli anni un patrimonio genetico diverso da quelle cresciute in ambienti naturali. Secondo le loro stime c’é il 90% di probabilità che siano discendenti di quelle che il fattore etrusco usava per fare il vino.Tra i vitigni testati ci sono quelli delle lambruscaie di Ghiaccioforte (vicino a Magliano in Toscana, in provincia di Grosseto), composti da uve di canaiolo nero e sangiovese, gli stessi che entrano nella composizione di molti vini di oggi. Inoltre, non è un caso se il  Sangiovese lo troviamo sia in Toscana che in Romagna (nella comunità di San Patrignano fanno un Sangiovese doc che é una meraviglia).
Se vogliamo allargare il campo della nostra visuale quando andiamo in Corsica e beviamo il Nieluccio, altro non é che Sangiovese e, lo ricordiamo, la Corsica è stata completamente etrusca dal 540 a.C., dopo la cruenta battaglia di Alalia contro i Greci.
Infine, un vicino parente del Sangiovese é l’aglianicone, presente in Campania e Calabria.
Insomma, troviamo tracce dei nostri avi un po’ in tutta quella che era l’Etruria meridionale e settentrionale, anche se, è bene dirlo, il vino che beviamo oggi, almeno per noi, non rientra quasi per niente nei gusti di coloro che con le loro tradizioni ed insegnamenti hanno dato un contributo notevole allo sviluppo della civiltà.
Per dirla con le parole del latinista ed etruscologo francese Jacques Heurgon (1903- 1995) “È in verità impressionante il constatare che, per due volte nel VII secolo a.C. e nel XV d.C., pressoché la stessa regione dell’Italia centrale, l’Etruria antica e la Toscana moderna, sia stata il focolaio determinante della civiltà Italiana”. (citazione tratta dal libro: Vita quotidiana degli Etruschi).

SANGIOVESE


Il Sangiovese, un vitigno dalla storia millenaria

Il Sangiovese è uno dei vitigni italiani più importanti, dalla storia antica ed affascinante poichè nasce nelle terre in cui nasce Dioniso, il dio simbolo di morte e rinascita. Le prime notizie sicure su questo vitigno sono del 1500 e testimoniano che le ancestrali radici affondano nel territorio dell’Appennino tra Campania e Calabria dove veniva chiamato Aglianicone.
Il sangue sacro degli etruschi
Il Sangiovese venne portato dagli Etruschi nelle zone in cui si è sviluppato ed ha avuto fortuna: tra Umbria, Marche, Romagna e Toscana. Il nome di “sanguis Jovis”, sangue di Giove, è infatti di origine etrusca. Gli Etruschi portano il Sangiovese dai luoghi di origine a quelli di coltivazione più a nord per motivi magico-religiosi legati al rituale del loro simposio sacro.
Molti dei simboli Etruschi legati al rituale passano poi anche nel cristianesimo come ad esempio il torchio che diviene la croce. Fu scelto dagli etruschi fra molti altri vitigni perchè dava vini il cui colore assomiglia molto al sangue che era parte fondamentale dei loro rituali e che quindi non necessitavano di essere diluiti con acqua e dando vino di miglior qualità.
Sangioveto, Prugnolo, Brunello
I documenti storici mostrano che venne chiamato per la prima volta con il nome Sangioveto o Sangiocheto nel 1590 in Toscana. Il Gianvettorio lo descrive nel suo trattato agricolo come un “vitigno sugoso e pienissimo di vino che non fallisce mai”. Nel Seicento il famoso pittore di nature morte Bartolomeo Bimbi ritrae alla corte di Cosimo III de’ Medici un uva chiamata Sangioveto.
Nell’Ottocento nel territorio di Montepulciano, in provincia di Siena, inizia a comparire il termine Prugnolo e a sorgere il dubbio sulla similitudine tra il vitigno Prugnolo, il Sangioveto e l’uva Brunello. Nel nel 1876 la Commissione Ampelografica della Provincia di Siena assimila tra loro il Sangioveto coltivato nel Chianti, il Prugnolo di Montepulciano e il Brunello di Montalcino: tutti sono espressioni di uno stesso antichissimo vitigno, il Sangiovese.
Oggi  la grande famiglia del Sangiovese si divide in due gruppi: il Sangiovese Piccolo e il Sangiovese Grosso in base alla maggiore o minore grandezza dell’acino. E’ un Sangiovese Piccolo il Morellino di Scansano mentre il Brunello, il Sangiovese Romagnolo e il Nielluccio corso sono Sangiovese Grosso, considerato migliore.
Il re dei vitigni italiani
II Sangiovese, con l’11% della superficie viticola nazionale, è il vitigno a bacca rossa più coltivato in Italia e concorre alla produzione di quattro fra le sue Docg più importanti: Brunello di Montalcino, Chianti, Carmignano e Vino Nobile di Montepulciano.
Vitigno considerato fra i più difficili da coltivare, il Sangiovese ha una buccia non molto spessa di colore nero violaceo e matura tra l’ultima decade di settembre e la prima di ottobre. E’ capace di adattarsi in suoli i più diversi possibili ma preferisce terreni con sedimenti calcarei capaci di esaltare i suoi eleganti aromi e le sue altre grandi qualità.
I vini del Sangiovese
I vini prodotti con Sangiovese in purezza, come il Brunello di Montalcino, hanno una grande acidità ed alto contenuto di tannini, colore moderato ed elegante struttura. Vini di notevole freschezza floreale e leggermente fruttati con sentori di ciliegia, equilibrati ed asciutti, se affinati in rovere, dove riescono ad invecchiare bene e a lungo, arrotondano le ruvidità divenendo speziati, robusti, armonici conservando una gradevole astringenza, e capacità di durare nel tempo.
Per la sua elevata acidità e astringenza, il Sangiovese è influenzato molto dal clima preferendo stagioni calde e secche. Il colore dei vini Sangiovese dipende dalle tecniche di coltura, dalle condizioni meteorologiche dell’annata ma in generale, la sua capacità colorante media, lo caratterizza con un rosso rubino trasparente unico al mondo.

LA BUCACCIA ANTICO INSEDIAMENTO ETRUSCO

Su Gonfienti purtroppo non ci sono novità, ma sul gruppo dei monti della Calvana, che sovrastano Gonfienti, dove si ritiene sia ubicata l’antica acropoli della città etrusca sul fiume Bisenzio (cioè Gonfienti), c’è una novità.
Prima di illustrarla vorrei ricordare che a Pizzidimonte, vale a dire alle prime rampe che salgono sui monti della Calvana, a circa 200 metri di altezza,nel 1700 sono stati trovati molti bronzetti votivi, il più famoso dei quali é l’offerente, che é esposto a Londra al British Museum.

Ricordo questa faccenda degli offerenti perché ho fatto una ricerca ed ho trovato che secondo la Carta Archeologica redatta nel 1929 a Pizzidimonte sarebbero stati rinvenuti (nei secoli precedenti) oltre a idoli e “altre anticaglie” due sepolcri con avanzi di armature ed UNA BASE DI COLONNA A PILASTRO TUSCANICO, in pietra arenaria.

I bronzetti, oltre a quello dell’offerente, si trovano uno a Villa Corsini, altri 8 sono nell’archivio della Soprintendenza di Firenze ed uno in una casa privata appartenente al pronipote di Cesare Guasti.

Il fatto che il luogo sede del fanum si chiami ancora oggi Pizzidimonte ci dice che il sito é a PINZO DEL MONTE, in modo tale che da lì si può traguardare tutta la piana fiorentina (Campi Bisenzio, Sesto e Firenze) e, spostandosi appena poco più a destra Prato, Montemurlo, Agliana (l’antica Hellana) sino a Pistoia.

Insomma questo tempio doveva essere posizionato in modo tale da essere visibile in tutta l’area metropolitana da Firenze a Pistoia, un po’ come se fosse una antichissima torre Eiffel.

Ebbene, se c’era, ed i numerosi bronzetti e la base della colonna a pilastro tuscanico lo provano, un tempio, più in alto c’era un villaggio di circa 3.000 persone, quello della Bucaccia, un pianoro posto a 370 metri s.l.m. lungo 1 km e largo 0,5 Km, dove erano presenti muri di difesa e terrazzamenti per porre le basi a molte abitazioni.

Un neo laureando geologo, tramite il GPS, ha ragguagliato sul posto le fortificazioni, creando una cartina: i muri di cinta sono tutti a secco, realizzati con la tecnica della doppia cortina muraria con riempimento a sacco.

L’area fortificata e dove si vedono canalizzazioni e terrapieni é di 21 ettari.

Ma c’é di più.

Oltre i muri e le 4 porte di accesso individuate c’è anche una cavea semicircolare, con tanti blocchi che potevano fungere da gradini: quindi siamo in presenza di un teatro.

Ma oltre il teatro c ‘é una sorgente, vicino ad un ipogeo denominato “grotta del drago”, che era stato circoscritto con una perimetrazione lapidea del diametro di circa 10 metri, in modo da avere una bacino di acqua da utilizzare secondo le necessità.

L’acqua di questa sorgente era convogliata in due direzioni: a nord verso il villaggio della Bucaccia, a sud nella parte che guarda il versante pratese e quindi anche verso il famoso tempio di Pizzidimonte.

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Uno scorcio dell’antico teatro ubicato su Poggio Castiglioni: sullo sfondo si nota

l’area urbana di Firenze

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Nel disegno è raffigurato il bronzetto trovato nel ‘700 a Pizzidimonte, testimonial all’estero del mondo etrusco.

“Pinus Pinea” L’albero misterioso degli etruschi

 

Spesso nelle mie riflessioni tendo ad esaltare il cosiddetto “spirito di osservazione”, quale ingrediente fondamentale per intraprendere studi o passioni nel mondo della ricerca, sia essa archeologica che scientifica.

Anche un semplice trasferimento in auto può offrire l’opportunità di scrutare l’ambiente circostante alla ricerca di scorci ispiratori o particolari interessanti che risaltano ad un occhio attento.

Mi accorsi dell’importanza dell’osservazione automobilistica molti anni fa quando, costretto per lavoro a macinare migliaia di chilometri al mese, spesso sugli stessi itinerari, smettevo di tenere gli occhi sulla noiosa monotonia dell’asfalto, cercando altri aspetti del paesaggio che rendessero il percorso sempre nuovo.

Qualche volta, nella solitudine dell’abitacolo lasciavo andare un cd di musica, adattando alla melodia le immagini offerte dal parabrezza, creando di fatto una sorta di rudimentale videoclip mentale.

Dopo un paio di tamponamenti ed un’escursione in un canale di scolo, limitai questa tecnica alla sola condizione di passeggero e non di autista! A parte queste poco amene conseguenze, presto mi resi conto che anche il medesimo  paesaggio, poteva concedere caratteristiche completamente differenti asseconda della direzione della luce solare. In termini semplicistici, alle tre del pomeriggio potevo notare cose invisibili al mattino e viceversa.

Questo preambolo mi è utile per descrivere quanto io debba essere un rompiballe durante i viaggi o i tragitti compiuti in auto in compagnia di amici o colleghi…

Da qualche mese in particolare, i membri della nostra squadra di ricerca, amano sbeffeggiarmi in merito ad una mia fissazione: nell’Italia centrale, i siti archeologici ed i tumuli (soprattutto quelli più grandi ed isolati di tipo collinare), sono riconoscibili da uno o più pini marittimi o domestici (pinus pinea) sulla sommità o nelle immediate vicinanze. Non mi riferisco tanto agli ameni viali alberati o alle refrigeranti pinete ma alla presenza “improvvisa” ed isolata di queste piante su pianure erbose, spesso collocate a cerchio. Molti di voi lettori ora avranno assunto l’espressione dei suddetti collaboratori, cioè di coloro che per puro spirito di rispetto e pacifica convivenza, con un senso di benevola commiserazione, annuiscono evitando di mandarmi a svolgere altre utili attività fisiologiche.

Eppure, il numero di queste coincidenze archeo-arboree andavano aumentando, fino a spingermi a svolgere qualche ricerca in merito. La totale assenza di citazioni bibliografiche sull’argomento, avrebbero scoraggiato chiunque, ed ammetto di essere stato spesso sul punto di deridermi. Chiesi ad un paio di amici archeologi, i quali mi fornirono alcune tesi, tutte soddisfacenti:

– il rilievo di un tumulo o di ruderi funerari su campi spesso arati, hanno offerto per secoli rifugio sicuro a cespugli e ad arbusti, soprattutto in quelle aree disboscate per motivi agricoli, permettendone uno sviluppo sovradimensionato fino agli attuali alberi;

– il maggiore grado di umidità del terreno in presenza di strutture sotterranee, ha consentito una crescita di macchia mediterranea (e quindi anche del pinus pinea) “a zone” delimitanti proprio i siti archeologici.

– tutti i pini presenti oggi in prossimità di vestigia etrusche o romane sono stati piantati nel medioevo (spesso infatti delimitano casali e castelli) o seguendo una corrente puramente estetica tipica dei secoli XVII e XVIII.

Purtroppo, pur accettando e rispettando tutte queste esaurienti spiegazioni, la mia anima repressa di indagatore del mistero ha avuto la meglio “costringendomi” a ponderare anche altre strade.

Sappiamo tutti che il popolo etrusco era votato al misticismo religioso e considerava sacro ogni elemento della natura. Tutto poteva all’occorrenza divenire fonte di magici segnali o rappresentare simbologie di consacrazione, protezione o previsione di eventi futuri. Ogni pietra, costruzione o azione era contraddistinta da significati profondi e ben definiti. Nulla era lasciato al caso, a maggior ragione se l’oggetto o la creatura in questione poteva rappresentare anche un bene tangibile ed oggettivo, come nel caso del pino, in grado di fornire del resistente legname, una resina utilissima come materia infiammabile, incensante e sigillante ed il frutto denominato “pinolo”, considerato una vera leccornia già in epoche remote.

Conosciamo dunque meglio questo “misterioso” albero, chiamato scientificamente “Pinus Pinea”.

Non a caso l’ho definito misterioso, poiché ancora oggi, nonostante la sua diffusione e la riconoscibilità per la caratteristica forma ad ombrello, non ne conosciamo con certezza l’origine. Le tesi prevalenti asseriscono sia originario del Mediterraneo occidentale o dell’Africa nord occidentale, comunque non autoctono della nostra penisola. Sicuro e comprovato è invece il mezzo attraverso cui questo si diffuse in Italia, in tutto il bacino mediterraneo ed oltre: gli Etruschi.

L’albero simbolo millenario della nostra italianità, apparve dunque al seguito di questo affascinante popolo di naviganti e commercianti, caratterizzandone sin da subito gli insediamenti.

Ancora oggi, alcune delle più rigogliose pinete esistenti sono retaggio di vere e proprie antiche foreste composte da questi caratteristici alberi; nell’area urbana di Roma la nota Pineta Sacchetti è una di queste, ma tra le più antiche si ricordano quelle di Castiglione della Pescaia (GR) e Tarquinia (VT).

Avendo prima accennato alla sacralità attribuita dagli Etruschi alla natura, non posso esimermi dal tradurre questa loro importazione di massa di “Pinus Pinea” in qualcosa di simbolico e metaforico, analizzando il significato che un albero – oggi così comune – poteva rivestire presso quel popolo.

Questo fusto, consacrato alla dea Cibele, dai Greci, dagli Etruschi e successivamente dai Romani, ed al dio Pan dai Celti, sin da tempi remotissimi simboleggiava il concetto di morte e resurrezione, non soltanto per le caratteristiche riproduttive che, di filiazione in filiazione lo portano ad essere quasi eterno (nonostante una vita media della singola pianta di circa 200 anni), ma anche per la particolare forma delle sue pigne, esotericamente paragonate all’uovo, oggetto simbolico particolarmente caro proprio agli Etruschi. Pensate che su quasi ogni tomba etrusca era presente una pietra a forma di uovo (più raramente vere uova di struzzo decorate che però ritroviamo maggiormente all’interno, come corredo funebre), e che solamente la totale assenza di preparazione in materia simbolica da parte dei primi pionieri dell’archeologia, portò la quasi totale perdita di questi oggetti.

Oggi, per ammirarli nell’originaria collocazione, occorre visitare la necropoli di Marzabotto. Il parallelo “uovo – pigna”, era noto sin da tempi remotissimi: particolarmente nota ed  indicativa è l’immagine di Dioniso che stringe una pigna nella mano; nel Medioevo, non è raro trovare pigne decorative su palazzi ed edifici religiosi, esattamente con il medesimo significato originale di eternità derivata dal ciclo vitale.

Nell’antica Roma, una fase rituale centrale della festa di “Arbor Intrat” era la consacrazione dell’albero del pino che, una volta trasportato nel tempio al cospetto di Cibele, assumeva le sembianze del cadavere di Atys, un giovane abitante della Frigia la cui bellezza conquistò la stessa dea che ne divenne passionale amante, annientandone l’umana capacità di discernimento. Il Re di Pessinunte (l’antico regno di Mida), convinto che Atys fosse stato soggiogato da quella divina passione, decise di separarlo dalla dea offrendogli in sposa la propria figlia. Durante le nozze, si manifestò Cibele e con tutta la sua furia iniziò a suonare un flauto di Pan (il tradizionale strumento rituale anche degli Etruschi, chiamato “aulos”), facendo impazzire tutti gli invitati e lo stesso Atys che, accecato dalla follia prese un coltello e si mutilò mortalmente. Zeus, mosso a pietà per la vicenda, lo volle trasformare in un sempreverde albero di pino, donandogli l’eternità.

Come sempre la mitologia sembra introdurci ad un simbolismo magico che spesso non ha confini geografici: sul sito web “Roma Ethnica” possiamo infatti leggere che “in Estremo Oriente l’incorruttibilità della sua resina ed il suo fogliame sempreverde fecero del pino il simbolo dell’immortalità. Confucio si riferisce al pino proprio parlando dell’immortalità. Gli aghi dei pini, la resina ed i pinoli sono il cibo degli immortali di Tao e nel Walhalla, il paradiso dove Odino accoglieva i guerrieri morti in battaglia, il loro nutrimento era costituito dall’idromele fornito eternamente dalla capra Heidbun che brucava le cime del pino Loradhr. In Giappone il legno di pino veniva usato nella costruzione di templi ed il pinolo veniva offerto ai nuovi sposi come augurio di lungo amore e fertilità”.

Nella Magia naturale tradizionale, le pigne sono usate nei rituali di fertilità e fecondità, gli aghi per allontanare gli spiriti maligni e la resina bruciata per respingere le maledizioni ed i sortilegi.

Appare dunque evidente l’associazione tra l’allegoria dell’albero del Pino ed il mondo dei morti, non a caso una delle principali credenze e ritualità religiose degli Etruschi. Questa pianta, poteva offrire il nutrimento essenziale ed eterno per affrontare il “viaggio finale”, nonché allontanare ogni entità malintenzionata nei confronti dello spirito del defunto in via di rinascita e quindi indifesa.

Le radici del pino, sviluppandosi in senso orizzontale, potevano avvolgere il sepolcro senza penetrarlo, quasi a guisa di una invalicabile barriera protettiva. La stessa caratteristica forma ad ombrello della chioma, era un riparo contro le avversità nelle città dei vivi come in quelle dei morti.

Altre peculiarità come la riproduzione sessuata (ebbene sì, i pini sono maschi e femmine!), invocavano altresì il ciclo vitale che, come abbiamo visto, nel caso della ritualità funeraria corrispondeva al concetto di morte e resurrezione o di vita eterna.

Ma non è tutto: alcune piante sono note per crescere prevalentemente all’ombra dei pini, favorite da una particolare composizione del terreno creata dalla decomposizione delle pigne:

l’Erica, associata agli elementi di Sole ed Acqua, in virtù della sua purezza era utilizzata per costruire le scope sacre che servivano a pulire i templi degli Dei. La sua nascita era attribuita a spiriti protettivi che ne abitavano i rami scacciando gli estranei (o gli indegni). Era infatti risaputo che chiunque si sdraiasse per oziare fra queste piantine, godendo dell’ombra degli alberi, poteva essere rapito. Ma se l’azione dello sdraiarsi era compiuta ritualmente, il giaciglio di erica poteva aprire una finestra sull’aldilà.

il Lentisco, le cui foglie sempreverdi rilasciano nell’aria, all’alba ed al tramonto, un intenso profumo inebriante. Questo è prodotto da una particolare resina che veniva chiamata “Mastice di Chio”, (l’isola egea da cui trae origine), utilizzata anticamente in ambito gastronomico per speziare carni frollate e per la preparazione di unguenti profumati per i defunti.

Già sul finire dell’Impero Romano d’Occidente, il Pino Marittimo ed il Pino Domestico iniziarono ad assumere il ruolo estetico che mantengono tutt’oggi, lasciando progressivamente il posto al Cipresso, pianta dalle caratteristiche simboliche molto simili alle prime ma delle quali parleremo successivamente.

Potrebbe dunque rappresentare un significato simbolico ben preciso, la presenza arborea del pino sopra o nei pressi di sepolcri, a prescindere le validissime tesi degli archeologi interpellati?

Non formulo teorie ma fornisco elementi su cui ragionare.

La mia attività di ricerca mi conduce talvolta a rintracciare principi comuni presenti in differenti discipline, riscontrando similitudini ed interrelazioni dai risultati spesso infruttuosi ma che, in rare occasioni, sembrano comporsi come le tessere mancanti di un puzzle.

E’ solo a quel punto che lancio nulla di più che un’idea, o un acerbo concetto di tesi, con il solo scopo di sensibilizzare i nuovi ricercatori accademici ad allargare il proprio campo visivo e conoscitivo, riaccendendo in loro la fiamma della curiosità, soffocata da pesanti tomi universitari pieni di altrui desuete verità a cui assoggettarsi.

Solo così, probabilmente, non accadrà più di ritrovare un sasso a forma di uovo e, non comprendendone il significato, smarrirlo…

 

fonte:  http://www.ilportaledelmistero.net   autore:  Jerry Assumma

L’OMBRA DEI RASNA – Il mistero degli Etruschi

 

di Dino Vitagliano

Una gloriosa migrazione venuta da lontano approda sui lidi italici e da sempre sfugge alle ricerche più approfondite. Dov’era la loro patria? Perché scomparvero senza lasciar traccia? Un’analisi degli aspetti misterici e controversi degli Etruschi.

L’articolo non avrebbe la sua forma attuale senza il contributo prezioso e determinante di Romano Manganelli, da sempre appassionato cultore della civiltà etrusca, che con profonda umiltà mi ha permesso di comprendere i miei sbagli e rafforzare la validità delle mie ricerche. (n.d.A)

L’ombra dei Rasna

Gli Etruschi sono il popolo più enigmatico ed affascinante che appartiene all’Italia, territorio principe della loro influenza. Secondo il ricercatore Mario Gattoni Celli, le notizie storiche su di loro non coprono più di cinque o sei pagine di libro. Nulla di più esatto.

I testi scolastici sorvolano rapidamente sulla potente monarchia etrusca sviluppatasi per molte generazioni, formata da sette re che gli alunni ripetono in successione come una filastrocca, dopo i quali si giunge immediatamente alla nascita della repubblica romana. I saggi degli studiosi, dal canto loro, aggiungono soltanto che gli Etruschi erano autoctoni della nostra penisola che parlavano una lingua indecifrabile e raggiunsero livelli eccelsi nelle arti, nella politica e nell’architettura, evitando di sottolineare le conquiste umane e spirituali donate all’impero romano. Negli ultimi anni, dopo attente riflessioni, si è fatto in strada in chi scrive il sospetto, divenuto pian piano certezza, che un fitto velo di silenzio sia calato sulla stirpe etrusca, per nascondere segreti di vitale importanza. Gli Etruschi non sono mai morti e ci hanno donato un tesoro inestimabile che narra una storia, la nostra, iniziata molto tempo fa.

Discesero dai Giganti

I ricercatori più audaci pongono l’origine degli Etruschi in Lydia, a oriente di Smirne, citando Erodoto che scrive ne Le Storie, I, 94: "Raccontano i Lidi che sotto il re Atys, figlio di Manes, vi fu in Lydia una grande carestia; per un po’ la popolazione vi tenne fronte, ma poi, visto che non cessava, … il re divise il popolo in due parti… A capo dei designati a rimanere pose se stesso; degli altri designati a partire, il proprio figlio Tirreno. Gli esuli scesero a Smirne, costruirono delle navi…e salparono alla ricerca di una nuova terra…, finché dopo aver costeggiato molti paesi, giunsero presso gli Umbri dove fondarono città che tuttora abitano…"

Manes, analogo al primo faraone egizio Menes, è il leggendario monarca Manu, nome collettivo che incarna la guida delle sette razze–madri con le corrispettive sottorazze. Il Manu aveva condotto moltissime migrazioni in epoche antidiluviane dalla primordiale Isola Bianca nel Mar del Gobi, la mitica Thule, territorio tropicale lussureggiante che estendeva i suoi confini al Polo Nord, sino alla formazione dei continenti di Mu e Atlantide. Gli Etruschi chiamavano se stessi Rasna, dalla radice ra, analoga al Ramu, re–sacerdote di Mu, Rama in India e al Ra egizio, personificazione dell’energia solare, cuore vitale del Cosmo. Simboli la svastica ed il globo alato delle tavolette di Mu, effigiate rispettivamente sui muri di Sovana, a Grosseto, e nella Tomba dei Rilievi di Caere. Le vie commerciali degli Etruschi erano le Tule che giungevano sino in Himalaya, e il cui eco ritroviamo nel toponimo Caput–tolium, capo delle Tule, il Campidoglio. Roma, infatti, sorge sul Tevere che incarna la Via Lattea e ha sette colli come gli astri dell’Orsa Maggiore, vicina alla stella polare citata nel Rg-Veda indù, asse del cielo che pulsa a Thule.

Antenati degli Etruschi sono i Toltechi, terza sottorazza principe della stirpe atlantidea, come apprendiamo dall’opera di Arthur Powell, Il Sistema solare. Di colore rosso–bruno, avevano un’altezza prodigiosa e primeggiavano nell’arte edilizia con templi ciclopici, strade lastricate e ponti. Crearono un impero splendente durato diversi millenni, quando un cataclisma si abbattè su Atlantide e i Toltechi si spinsero nelle Americhe, fondando la civiltà incaica, mentre i suoi eredi edificarono nel IX sec d.C. Tula in Messico, con i loro enormi "atlanti". Il gene tolteco si ritrova intatto nella sesta sottorazza akkadiana, propria degli Etruschi, che presentano legami inestricabili anche con gli Egizi, i Maya e gli Indiani del Nordamerica, altri discendenti dei Toltechi.

Un colore regale

Gli affreschi nella Tomba del Triclinio, a Tarquinia, ritraggono uomini rossi, mentre la Tomba degli Auguri presenta personaggi di rango elevato del medesimo colore che si stagliano sopra individui comuni. Un altro ancora tiene fra le mani un uovo, segno della creazione eterna. I re etruschi, durante le cerimonie rituali, si tingevano di rosso con il minio, e rosso sarà il colore preferito dall’imperatore Nerone. Il rosso, ammettono gli studiosi, ha carattere sacro, senza spiegarne però il motivo. Simboleggia gli ancestrali predecessori e rimanda al culto del pianeta Marte, incarnato dalla Sfinge leonina interamente rossa, a Giza, e dal giaguaro della piramide di Chichén Itzà. Il felino sacro ricompare di nuovo a Tarquinia, nella Tomba dei Leopardi e in quella delle Leonesse, in realtà giaguari. I pellerossa del Nordamerica, infine, come gli Etruschi conservano sepolcri a forma di tumulo e venerano i simboli dell’uovo e del serpente.

Parlavano sanscrito

Ma chi erano in verità gli Etruschi? La lingua ne penetra il mistero? L’imperatore Claudio, affascinato dal loro mondo, scrisse i Tirrenika in venti volumi, spariti nel nulla. Stessa sorte subirono gli Annuali Etruschi custoditi nel Tabularium Capitolinum, che narravano la vera origine dei Romani, i Libri Etruschi e i Tusci libelli, conservandosi soltanto qualche frammento negli autori latini. Strano, dato che gli scolari romani andavano a studiare l’etrusco nella prestigiosa Caere. La lingua dei Rasna, afferma il filologo Bernardini Marzolla, svela un’antica discendenza dal primo idioma del pianeta: il sanscrito. Il testo più completo è inciso sulle bende di una mummia scoperta in Egitto due secoli fa, ora al Museo di Zagabria. Le strisce di tela, quattordici metri, compongono il "Libro della Mummia", aggiungendosi alle oltre dodicimila iscrizioni rinvenute.

Adepti della Grande Madre

Intorno al 1.000 a.C., gli abitanti della Lydia dimorarono nell’isola di Lemno con capitale Efestìa, nel Mar Egeo, disseminata di necropoli e santuari alla vergine nera Cibele, invocata come madre dell’Indo. Le fanciulle raticavano la sacra teogamia in collegi particolari, che ricordano quelli delle Mamacones inca e delle Vestali romane. La società etrusca era di tipo matriarcale, come Atlantide, con le donne che presenziavano ai sacri culti e godevano di un peso influente nelle decisioni più importanti. Prova ne è la tomba Regolini–Galassi, scoperta nel 1836 a Caere, che ospitava la principessa Larthia, con indosso un fibula intessuta di minuscole sfere granulate. Rivelatrice, poi, la storia di Lucumone, figlio di un nobile corinzio, che insieme alla moglie Tanaquilla giunge a Roma da Tarquinia nel VII sec. a.C. Alle porte di Roma, un aquila afferra il cappello di Lucumone per poi restituirglielo. Un presagio sacro, simile al mito azteco, e alla fondazione della metropoli di Cajamarquilla in Perù, dove un condor avrebbe incoronato il suo fondatore. Tanaquilla è un nome incaico, dato che quilla significa luna, suggerendo che la donna appartenesse ad un antico culto lunare. In etrusco, lo stesso nome è Thanakhvil, dove than è l’aspetto femminile del dio Tin e akhvil è ancella, in quechua aclla, indicante cioè "le ancelle degli dèi", un ordine sacro.

Gli avamposti megalitici

Lucumone entrerà a Roma mutando il suo nome in Tarchunies Rumach, Lucio Tarquinio Prisco, e diverrà re nel 607 a.C. dopo la morte di re Anco Marzio (strana assonanza con il termine egizio Ank–hor). Sarà lui a drenare l’acqua che alimenterà il Tevere dai colli attorno a Roma, a creare il Foro Boario, il Tempio di Vesta e il Circo Massimo, luogo di culto. Suo è anche il magnifico tempio di Tinia–Giove sul Campidoglio. Roma, territorio di povere palafitte, entrerà a far parte delle dodici città sacre che coprivano l’intera Etruria, mentre un numero analogo di metropoli interessò la Campania. Nell’erezione di un sito, i geomanti etruschi tracciavano due linee ad angolo retto in direzione nord–sud, il cardo maximus, e il decumanus maximus con andamento est–ovest, ponendo nel punto d’intersezione la pietra omphalos, ritrovata spesso intatta dai moderni mezzi di rilevamento. Le metropoli etrusche annoverano Cortona, Arezzo, Fiesole, Tarquinia, Vulci e Populonia. Il monumentale complesso urbano di Caere, con una necropoli che copre 360 ettari, era anticamente il porto più potente del Mediterraneo, insieme ad Hatria, e da innumerevoli altri sulla costa Tirrenica. Uno dei più antichi insediamenti è Vetulonia, che superava Atene con oltre centomila abitanti. Le sue pietre megalitiche un tempo si stagliavano sulla collina–tumulo, ugualmente a Ollantaytambo sulle Ande. Sulla ciclopica Cosa, vicino Orbetello, vigila una Sfinge di pietra e il contiguo monte di Ansedonia è scolpito con animali mitologici analoghi a Marcahuasi. Indistinguibili, poi, la cinta muraria di Volterra lunga 8 km e quella di Pisaq in Perù, come pure i blocchi poligonali di Alatri e Amelia, pesanti centinaia di tonnellate, e Sacsayhuaman, sovrastante Cuzco. Le profonde affinità degli Etruschi con gli Inca trovano autorevole conferma in Zecharia Sitchin, da noi interpellato, il quale ha risposto affermativamente circa la nostra intuizione di un simile legame con la lontana America.

Colpisce, poi, l’omofonia di Chianciano (probabilmente consolidatosi da un etrusco Clanikiane) e Chan Chan, capitale del Gran Chimù peruviano, le quali conservano anche identiche urne funerarie antropomorfe risalenti al VII sec. a.C. A Poggio Murlo, Siena, è stata rinvenuta anche una statuina con barba posticcia di un "antenato", munita di uno strano sombrero simile al copricapo del Guerriero di Capestrano. Infine abbiamo Veio, patria dell’artista Velca, che scolpì la magnifica statua di Apollo, divinità la cui l’effige sul Palatino sarà alta 15 metri. La stirpe degli Amhara o Aymarà, che abitarono l’antic Ameria (Amelia) con il nome di Amr, adoravano Apu Illu, Signore dei fulmini, sul Monte Soracte in Bolivia, mentre i Romani costruirono sul Monte Soracte, cantato da Orazio nelle sue Odi, un santuario ad Apollo.

Le invisibili arterie di Porsenna

L’opera più imponente è il Mausoleo di re Porsenna a Chiusi, tratteggiato da Varrone e Plinio nei loro libri. La struttura sembra un tempio buddhista con ben quindici piramidi di altezza indescrivibile e una sfera di bronzo al centro, che emetteva particolari frequenze. I suoi pinnacoli antenne rivolte al cielo per incanalare l’energia cosmica. Costituiva il centro oracolare madre in Italia, legato con quelli di Delfi, Dodona, Tebe, Heliopolis e Metsamor, in Asia Minore. Sotto il vicino Poggio Gaiella si diparte una fitta rete di gallerie sotterranee inesplorate che formano il labirinto di Porsenna, cuore cerimoniale connesso con le dodici città–stato e le metropoli gemelle al di là dell’oceano. Anche le catacombe sotto San Pietro, una volta templi etruschi, erano parte di questo disegno.

Funzione iniziatica avevano i cunicoli ad U, come quello lunghissimo ed inquietante di S.Valentino e altri a Pitigliano, Sorano e Sovana, un’area archeologica di notevole interesse, costellata delle famose "tagliate". Queste enormi strade nel tufo, che paiono scavate con il laser, si ergono vertiginose nelle vicinanze di necropoli, templi, luoghi sacri, e spesso vicine le une alle altre. Sorte al ritmo del flauto, con cui gli Etruschi scandivano ogni attività, richiamano alla mente il musico greco Anfione, il quale edifica Tebe "alla musica delle sua lira", presumibile scienza sonica antidiluviana. Se l’enorme traforo sotto Castel Gandolfo, più di 1 km, è un’opera di ingegneria idraulica, lo scopo delle "tagliate" non è ancora chiaro. Alla luce delle attuali cognizioni, rappresentano allineamenti astronomici o tellurici di rilevante importanza, istoriate da glifi cosmici. Il tufo, infatti è un materiale radioattivo, rinvenuto anche a Cuzco e sulla piana di Nazca.

Guardiani della vita

L’illustre linguista Georges Dumézil, in appendice alla sua opera La religione romana arcaica (Rizzoli, 2001), dichiara in toni concisi che i Romani mutuarono da un "passato indoeuropeo" un solido sostrato rituale, che "l’apporto etrusco" modificò lievemente. Una contraddizione in termini. Per amore di chiarezza, facciamo notare che gli Etruschi sono l’elemento indoeuropeo, e i Romani si limitarono ad adottare le loro elevatissime concezioni, come in precedenza i Greci, poi totalmente stravolte. Gli Etruschi erano un popolo pacifico, costretto ad impugnare le armi soltanto a causa delle vessazioni di Roma. Avevano una visione animista, in cui l’Universo tutto pulsa di vita e ogni organismo è connesso. Da qui l’amore per la Terra, i boschi, le fonti, le montagne e il cielo, sinfonia sublime dell’Energia Prima, che nel corpo umano esprime la sua sacralità attraverso le funzioni sessuali. Il loro pantheon è formato da numerosi personaggi ed esseri ausiliari, esprimenti i molteplici aspetti di una lontana dottrina esoterica, invisibile ai profani. Similmente agli gnostici, ritenevano, infatti, l’uomo al centro delle forze luminose ed oscure, in grado di stabilire da solo quale via intraprendere per tornare in alto.

Il linguaggio della Natura

Le rivelazioni uraniche si ritrovano nei Libri acherontici, sulle dimensioni nascoste, rituales, fatales, e i Libri haruspicini riguardanti l’epatoscopia, o esame del fegato, per gli Etruschi un piccolo cosmo in movimento. Una scienza definita dai Romani "etrusca disciplina". I volumi provenivano dal sapiente fanciullo Tages, spuntato da una zolla di terra, informazione che ci ricollega al regno sotterraneo di Agarthi. La Madreterra donò agli Etruschi la geometria sacra e il suono primordiale, con il quale ammaliavano gli animali. Notevole l’incisione del mandala esoterico "fiore della vita" a sei petali, di matrice indiana, trovato sulla stele del guerriero Avele Feluske, a Vetulonia. La disposizione reticolare dei massi negli edifici replica la struttura biologica della cellula, facendo sì che l’intera costruzione prenda vita e "comunichi" determinate frequenze, particolarmente attive presso i corsi d’acqua. L’elemento liquido aveva una funzione purificatrice, ancor oggi apprezzata nei centri termali di Saturnia e Petriolo. Numa Pompilio, che le tradizioni descrivono come monarca pacifico e illuminato, era in contatto con la ninfa Egeria, che abitava una sorgente nel bosco sacro vicino al fiume Almene. L’acqua sorgiva magnetizza i raggi cosmici, come gli infrarossi, rigenerando la terra e le forme di vita. Nell’uomo potenzia la memoria ancestrale e inonda l’ipotalamo di energia planetaria.

Il bagliore di Zeus

Numa compose dodici libri di "scienze naturali" che nascose in un’arca nel suo sepolcro, trovato poi vuoto, e introdusse il calendario solare di 365 giorni e ¼. Padroneggiava il "fuoco di Zeus", l’elettricità, e i suoi templi possedevano parafulmini all’entrata. Il suo successore, Tullo Ostilio, morì invece incenerito dalle scosse fulminanti. Il segreto di Numa passò a Porsenna, che nel VI sec.a.C. polverizzò Bolsena, invocando una folgore celeste, e sconfisse con una scarica elettrica un essere feroce dal nome profetico: Volt. Lo studio dei tuoni e dei fulmini era codificato nei Libri fulgurales, con le istruzioni per evocare, dominare e guidare le folgori. Riti complessi seguivano alla caduta di un fulmine in un determinato luogo, che veniva immediatamente recintato per precauzione e dichiarato sacro, per la presenza nel terreno di ferro meteorico dei bolidi stellari, vitale agli Etruschi. I fulguratores, provvisti di cera nelle orecchie, allontanavano le vibrazioni residue modulando una parola sacra. Alle Sorgenti della Nova, un’antica metropoli guarda da una scalinata il Monte Becco, santuario etrusco, dove ancor oggi avvengono strani fenomeni magnetici. Anche Costantino, sacerdote del Sol Invictus, consultava segretamente gli aruspici etruschi, disposti a lanciare folgori sui Goti di Alarico nel 410 d.C., sotto papa Innocenzo. I fulgurales erano una parte dei Libri Vegoici, dono della ninfa Vecu al tempio di Apollo, in cui possiamo ravvisare i famosi Libri Sibillini, portati all’imperatore Augusto da una donna misteriosa e distrutti dai cristiani nel 400 d.C.

Gli iniziati sonici

Numa istituì il collegio dei lucumoni, formato da 60 sommi sacerdoti abbigliati con la veste di porpora, la catena d’oro, il tutulo conico sul capo che funge da ricettore celeste. In mano il lituo, lo scettro ricurvo sormontato da un’aquila, che emetteva onde sonore. I lucumoni erano medici–sciamani che viaggiavano nei mondi astrali acquisendo prodigiose conoscenze utili alla guida della comunità, come avviene nella culture siberiane ed uralo–altaiche. Fra gli Inca assumevano il nome di astronomi Tarpuntaes. Sempre a Numa dobbiamo la creazione di un altro enigmatico collegio, quello dei Flamines Dialis, custodi del soffio terrestre, che nascondono nel nome l’energia fiammeggiante della kundalini, alla base della spina dorsale. Costretti da severissime norme, dormivano in grotte sacre sopra un piccolo pertugio nel terreno. Il loro abbigliamento consisteva in una "camicia" dalle ignote funzioni e una sorta di stetoscopio con un filo di lana che captava l’afflato tellurico, vestimento che nell’insieme lascia intravedere perdute operazioni geotecniche di vulcanologia.

La stirpe del silenzio

Centro iniziatico e cuore della vita etrusca è il Fanum Voltumnae, nella fitta selva del Lamone intorno al Lago di Bolsena, che estendeva i suoi confini sino a Tarquinia, formando un luogo sacro al confine tra cielo e Terra. Qui, nel sacro Tempio, i lucumoni delle dodici città sacre si riunivano ogni anno per eleggere un nuovo sacerdote e celebrare la cerimonia misterica della Paska, in cui si spezzava il pane e si beveva il vino, mentre i partecipanti ricevevano una melagrana, la rigenerazione. I Rasna erano a conoscenza che il loro compito sulla Terra volgeva al termine, come gli Incas che lessero nelle stelle uguale ammonimento. Dieci "saecula" durava la civiltà gloriosa che avevano creato, e nulla, nemmeno il più potente dei lucumoni, era in grado di opporsi. Scomparvero all’alba di un nuovo Sole, stirpe coraggiosa che in silenzio aveva plasmato il tempo.

BIBLIOGRAFIA

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Churchward, James Mu: il continente perduto – Armenia, 1999
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Kolosimo, Peter Italia mistero cosmico – SugarCo, 1987
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Pallottino, Massinmo a cura di Gli Etruschi – Bompiani, 1992
Pincherle, Mario Come esplose la civiltà – Filelfo, 1977
Powell, Arthur Il Sistema Solare – Edizioni Alaya, 1993
Quattrocchi, Angelo Miti, riti, magie e misteri degli Etruschi – Vallardi, 1992

Il Sole delle Alpi è un simbolo etrusco?

In un momento in cui s’infiamma la polemica sull’uso del simbolo che rappresenta il Sole delle Alpi nel comune di Adro in provincia di Brescia (che strano, Adro sembra assomigliare ad una nota città etrusca Adria che ha dato il nome al mar Adriatico ed a un elemento molto importante l’atrio, dal latino atrium, forse associato a corridoio di luce o luminoso, com’è appunto il mar Adriatico) vorremmo porci una domanda:

 ma siamo sicuri che il simbolo del Sole delle Alpi è davvero celtico?

 Il famoso “Sole delle Alpi”, noto anche come rosa celtica oppure fiore a sei petali, rosa dei pastori e detto nel medioevo anche rosa carolingia, in Italia è presente sin prima dell’VII secolo a. C., in Toscana sull’urna etrusca di Civitella Paganico. Comunque, se abitate in prov. di Firenze potrete vederla all’interno del museo archeologico di Fiesole, scolpita su una urna in pietra; questo simbolo è diffuso anche in Campania, in particolare sull’isola d’Ischia, dove è una tipica decorazione degli architravi degli antichi edifici del centro storico di Forio. A questo proposito vogliamo ricordare l’importante influenza che ha avuto la civiltà etrusca nel mondo campano: Capua, Cuma, Nola, Ponte Cagnano e tutta la valle del Sele, fino a Palinuro e Molpa (che vuol dire l’estremo territorio, in questo caso a sud degli Etruschi, da confrontare con Melpum, il termine a nord, che qualcuno identifica con Monza o addirittura Milano) sono città fondate dalla civiltà etrusca ed è verosimile pensare che in tutti quei territori dove si sono sviluppati la cultura agricola della vite e dell’olivo e cultura della ceramica (in Italia – vedi Ischia e Capodimonte) siano da riferirsi a questa civiltà etrusca. A sostegno del nostro ragionamento c’è il fatto, incontestabile che la vera ricchezza della Val Camonica giunse nel IX secolo a.c. con la tecnologia del ferro: grazie alle tecniche apprese da gli Etruschi sulla lavorazione del ferro cominciò il commercio della ferrarezza durato fino alla metà del XX secolo.
Inoltre, secondo lo storico Strabone la civiltà camuna aveva un alfabeto che si associava alla cultura retica, tale civiltà si dedicava principalmente alla caccia e alla pastorizia ed ebbe il massimo splendore nell’età del ferro (IX – VIII sec. a.C.), grazie alle numerose miniere di ferro in Val Camonica. Se poi vogliamo approfondire la presenza Etrusca nella civiltà Camuna dobbiamo dire che tracce d’influenza di questa cultura permangono nell’alfabeto camuno, nel quale sono redatte oltre duecento iscrizioni, molto simili agli alfabeti nord-etruschi. Ma una prova clamorosa che il Sole delle Alpi era già conosciuto prima dell’arrivo dei Celti ci viene da una lapide ritrovata nell’isola di Lemno (un isola che si trova a 70 Km dalla costa turca, propio davanti alla famosa ed antica citta di Troia). Questa lapide, attribuibile all’ottavo secolo a.C., raffigura un soldato armato di ascia bipenne ed elmo a calotta sormontata da cresta, quindi tipicamente etrusco, con uno scudo che riproduce lo stesso disegno del Sole delle Alpi; infine, a rafforzare il legame con il mondo etrusco ci sono le iscrizioni che contornano la figura del guerriero, tutte rigorosamente in etrusco arcaico.

La via etrusca dei due mari: Gonfienti punto mediano della antica superstrada

Si è parlato della città etrusca sul Bisenzio in un convegno promosso da Archeologia Viva a Loiano

Nei pressi di Capannori, in un territorio pianeggiante che fino alla metà dell’Ottocento, epoca della bonifica granducale, era occupato da un lago denominato Bientina sono emersi, ben leggibili, i resti di un’imponente strada extraurbana di 2.500 anni fa, realizzata dagli Etruschi. Il percorso individuato e’ lungo quasi 200 metri: si tratta della prima grande strada etrusca scoperta in Toscana e, sia per arcaicità’ sia per dimensioni , sette metri di larghezza, è forse la più importante mai trovata in Italia. Iniziavano così le cronache riportate nel Maggio 2004 da giornali e televisioni a proposito della straordinaria scoperta archeologica di un tratto della via etrusca dei due mari .Le notizie di approfondimento ci hanno poi comunicato che il prezioso ritrovamento è stato fatto grazie ai lavori per la costruzione di un inceneritore a Casa del Lupo, una frazione del Comune di Capannori. Durante gli scavi, infatti, sono state notate delle pietre che per la loro disposizione sono state credute facenti parte di un muro. Successivi saggi esplorativi hanno dimostrato che le pietre non facevano parte di un muro, ma del pavimento di una strada lastricata, che riporta ancora i solchi lasciati da ruote di carri. Questa antica strada è parallela all’ autostrada Firenze mare ed è orientata da ovest a est. La sua struttura, leggermente a schiena d’asino e con ai lati due canali di scolo dell’acqua piovana proveniente dalla mezzeria, a prima vista è stata scambiata per strada romana, ma rispetto a questa differisce per la parte superiore, che è costituita da un manto omogeneo, come il nostro asfalto, fatto di argilla e ciottoli piatti di fiume (in pratica la tecnica di costruzione è costituita da ciottoli e massi giustapposti a secco). Oltre a questa differenza si è scoperto che l’impianto delle pietre destinate a sopportare il calpestio si trova su un letto di terra e ghiaia contenenti frammenti di ceramiche etrusche del 550 a.C. Gli studi condotti dal prof. Michelangelo Zecchini, archeologo di Lucca, hanno indicato un antico itinerario commerciale: in pratica il ferro etrusco, ridotto in pani nei forni dell’Elba e di Populonia viaggiava via mare fino a Pisa. Da qui proseguiva in direzione est con doppia modalità: via fiume tramite l’Arno e via strada passando da Bientina e ricongiungendosi con il tratto di “superstrada” riemerso a Capannori. Ma quale era il percorso seguito dal ferro degli Etruschi? Un’ipotesi verosimile vuole che il punto mediano del percorso tra Pisa e lo scalo adriatico di Spina (vicino all’odierna Comacchio) fosse la città etrusca sul Bisenzio, oggi nota come Gonfienti. Per parlare di questo evento, che nel luglio 2008 è stato ripercorso davvero da amanti dello “slow trekking”, grazie al progetto messo a punto da Gianfranco Bracci insieme ad esperti del CAI, è stato recentemente promosso un convegno a Loiano (BO) , nella Valle dell’Idice, che è un riferimento verso la strada della Futa e poi verso il Mugello e che vanta una cospicua presenza etrusca databile dal V al IV secolo a.C. Il convegno, organizzato dalla rivista Archeologia Viva (che nel numero 134 di marzo/aprile ha dedicato ben 10 pagine all’argomento) in collaborazione con Appennino Slow, comune di Loiano e Lions Club “valli Savena e Sambro” , è servito per illustrare l’ipotetico percorso di 2.500 anni fa e quello possibile oggi. Prove storiche che la strada, citata anche dal geografo greco Scilace di Cariando (VI – V secolo a.c., autore del periplo dell’Indo compiuto per conto di Dario I di Persia), fosse esistita le abbiamo dal rinvenimento di scorie di ferro provenienti dall’isola d’Elba, in quanto sono simili a quelle rinvenute a Marzabotto e a Spina (e qualcuno sostiene anche nei pressi di Gonfienti). L’archeologia ha dimostrato come gli itinerari di comunicazione tra Etruria centrale ed Etruria padana fossero numerosi e dislocati lungo tutta la dorsale appenninica. Ma uno di questi corridoi doveva essere percorso da una strada più importante delle altre. Se guardiamo i valichi appenninici su una cartina topografica ci accorgiamo subito che quello più basso ed in diretto contatto con la città etrusca di Marzabotto, gemella di Gonfienti per tipologia di costruzione architteonica, è Montepiano, raggiungibile attraverso la Val di Bisenzio. Ecco dunque che l’importanza della città etrusca sul Bisenzio come punto mediano prende corpo avvalorando l’idea di una via di comunicazione tirreno-adriatica che in soli tre giorni (secondo Scilace) consentiva di andare da un mare all’altro.
Sicuramente non con un carro, ma a cavallo forse sì. Con questa importante strada gli Etruschi trasportavano i minerali di ferro dal porto di Pisa, proveniente dall’Elba, al porto di Spina dove veniva venduto alle popolazioni orientali che vi si rifornivano, in cambio di essenze, avorio e pietre preziose. Tra i relatori intervenuti al convegno Paola Desantis, direttore del Museo nazionale etrusco di Marzabotto, Daniele Vitali, docente di antichità celtiche all’Università di Bologna, Claudio Calastri, ricercatore in archeologia del Paesaggio all’Università di Bologna, Luigi Donati, docente di etruscologia all’Università di Firenze, Sergio Gardini del CAI regionale Emilia Romagna, Gianfranco Bracci co-ideatore del trekking “la via etrusca dei due mari”. Particolarmente interessante l’intervento del Prof. Donati, il quale ha riferito che la via maestra tra l’Arno e Marzabotto era quella che passava dall’area oggi definita di Gonfienti. Secondo Donati la statuetta votiva detta “L’offerente”, rinvenuta nel 1735 a Pizzidimonte, a meno di 1 km in linea d’aria rispetto a Gonfienti, non è stato un caso. In quella zona si erano insediati 2.500 anni fa gli Etruschi e non avevano fatto una città da poco, ma un villaggio di grandi dimensioni con una struttura urbanistica ordinata, numerosi edifici, strade larghe anche 10 metri, canalizzazioni lastricate in pietra a secco. Una città insomma organizzata ed evoluta da un punto di vista urbanistico che, curiosamente si presentava già ieri con la stessa funzione di interporto, che oggi vorrebbero riproporre in chiave moderna. Il Prof. Donati ha concluso la sua relazione facendo notare che dagli scavi di Gonfienti è emersa una domus gentilizia con un grande cortile interno, attorniato da un portico a colonne ricoperto da tegole e coppi; sulle estremità angolari del tetto erano state poste quattro antefisse (ceramiche dipinte raffiguranti personaggi femminili), la cui presenza, per tipologia stilistica è alquanto rara, se non unica, nell’Etruria del nord, segno che chi abitava tale domus rivestiva un alto rango sociale ed aveva raffinati gusti. “Per avere un’idea delle proporzioni – ha specificato Donati-, l’abitazione di Gonfienti è di oltre 1.400 metri quadri: raffrontandola con quelle coeve di Marzabotto (800 metri quadri) ed ancor più con la domus regia dei Tarquini (posta sulla strada che si chiamava Summa Via Sacra, sul colle Palatino) di 690 metri quadri, si può sostenere che è la più grande abitazione esistente in Italia per orizzonte etrusco”.
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